Il concorsone (I I parte)


[I parte]

Ci vogliono ‘soltanto’ nove mesi prima si avere qualche notizia e, non a caso, la vicenda comincia ad assumere sempre più le sembianze di un parto travagliato. Alle porte dell’inverno arriva un misterioso 18 come voto del primo scritto (se il tema era giusto, trattandosi di argomenti strettamente relazionati, allora poteva essere tutto giusto o completamente sbagliato), che abilita ad affrontare la seconda prova scritta, ma con l’obbligo di prendere il massimo voto (10) per poter ambire almeno all’orale. Prima di Natale, ecco il momento: in un’ora e mezza di tempo viene richiesto di scrivere un programma perfettamente funzionante. Si tratta di un tempo che neanche il datore di lavoro più tiranno della software house più lurida della new economy riuscirebbe a pretendere. Grazie a una preparazione estesa, anche se superficiale, a un giro di impressioni su Internet con chi ha già affrontato la prova e, soprattutto, a una discreta fortuna, il tema è uno di quelli svolti come esercizio, così risulta abbastanza agevole ottenere il risultato prefissato e cadere nuovamente in letargo in attesa dell’evento successivo.

Il dilemma adesso, è che cosa studiare. L’elenco degli argomenti da portare all’orale presentato nel bando del concorso è di circa due colonne: praticamente tutto ciò che ha a che fare l’informatica. Tra un certo scoramento, disorientamento e i tempi imposti da lavoro e famiglia, il problema per qualche tempo finisce in un angolo. Naturalmente un discreto contributo arriva dai tempi di avanzamento della burocrazia, che riesce a far trascorre un altro inverno. Sul finire infatti, giunge la lettera di convocazione per un sabato pomeriggio da lì a un paio di mesi. Nel frattempo, le uniche indicazioni utili da chi aveva già sostenuto le prove negli anni passati erano quelle di affidarsi ai libri di testo; tipicamente nozionistici e controindicati per apprendere cose utili nel mondo reale. La scelta è stata quella di sviluppare le capacità di insegnamento e approfondire gli argomenti tecnici, più considerati nel mondo reale (grave illusione). Naturalmente passare ai libri di testo avrebbe richiesto anche una buona dose di tempo aggiuntivo, al momento difficilmente reperibile.

Con un pizzico di incoscienza si arriva così alla data fatidica, nella illusoria convinzione di dover affrontare un ‘colloquio’ attitudinale mirato a verificare la capacità di insegnare e una discreta conoscenza degli argomenti.

Il problema, o l’errore, era invece quello di aver completamente dimenticato i meccanismi ermetici della scuola italiana. All’ora stabilita, anzi dopo l’inevitabile intervallo ‘accademico’, si annuncia il drappello che rappresenta la commissione con al capo un ‘presidente’ degno della miglior parodia della commedia italiana sulla scuola.

Fatto il dovuto appello, un sorteggio stabilisce la priorità. Terminata un’attesa, tranquilla ai limiti dell’incoscienza, l’ingresso in aula comincia finalmente a svelare le vere modalità della prova: interrogazione vera e propria stile ‘scolaro’. In effetti il dubbio svanisce dopo la prima domanda per diventare certezza: quello che avrei dovuto fare, invece di studiare su argomenti del mondo di utilità pratica, sarebbe stata una esclusiva pratica nozionistica e teorica. Senza bisogno di dilungarsi oltre, le domande erano del tipo: “le tre forme normali di un database”. Per chi non fosse interessato particolarmente ai dettagli del mondo informatico, basti dire che si tratta di una domanda del tipo: “Illustri i principi della fisica che hanno portato alla realizzazione del motore a scoppio a quattro tempi”, fatta a un esame per ottenere la patente. Mano a mano che le domande si susseguono, i tentativi di rispondere con esempi pratici e tecnologie impiegate nella vita di tutti i giorni si dimostrano sempre più inutili, passando alla fine per completo ignorante. Naturalmente non poteva mancare uno sguardo di intensità progressiva che ricopriva il volto dei commissari, con l’espressione tipica di “Ma questo cosa è venuto qui a fare?”. Senza ovviamente voler entrare nel merito di chi ha comunque guadagnato una certa posizione, vorrei sottolineare a mia discolpa come i precedenti cinque anni di insegnamento a tutti i livelli, avevano sempre avuto riscontri positivi, non tanto negli apprezzamenti formali, quanto piuttosto nelle ripetute richieste di prolungare gli impegni anche agli anni successivi.

La prova si esauriva quindi in un clima di totale diffidenza e reciproca incomunicabilità, ma che se non altro lasciava una forte convinzione di essersi in qualche modo ‘liberati’ di un peso: non avevo più alcun dubbio che il mio desiderio di insegnamento fosse incompatibile con la scuola (italiana).

Finisce così, naturalmente senza abilitazione, una lunga storia che, se a livello personale lascia pochi rimpianti, dall’altra aumenta la rabbia nei confronti di un’istituzione (o meglio, un carrozzone) che con tutta probabilità vedrà i miei figli vittime di quella stessa improvvisazione e mancanza totale di organizzazione e personalità che fa da biglietto da visita alla scuola italiana. Parola di trombato (anzi, di ‘non abilitato’).

P.S.
C’è un dubbio che mi perseguita sin dal mio primo approccio con il mondo della scuola, tanti anni fa. Mi sono iscritto alla graduatoria del Provveditorato di Varese, entrando intorno alla posizione 5.000. Dopo qualche anno avevo addirittura scalato la classifica, fino ai dintorni del numero 1.000. Ma questo rivelava anche una cosa curiosa: molti nominativi, anche dopo il mio, erano stati marcati come “entrati in ruolo”. L’unica risposta ottenuta da impiegati, naturalmente ‘importunati’ da richieste su come persone dietro di me potessero avere già un posto fisso e a tempo indeterminato era evidentemente banale: “si vede che hanno avuto la nomina”. Esiste una risposta che non sia legata al mondo delle raccomandazioni? Se questo è l’esempio di insegnanti e dirigenti, cosa aspettarsi dagli studenti?


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