Poche cose riescono a scuotere l’animo dei disoccupati e dei lavoratori scontenti italiani come un concorso pubblico. Poche cose rispecchiano la situazione enigmatica del Pubblico in Italia come la scuola. Mettiamo insieme queste due cose e otterremo un cocktail esplosivo: il concorso per l’abilitazione all’insegnamento nella scuola italiana. Quello che a prima volta può sembrare una vicenda come tante altre, se vissuta dall’interno rivela risvolti assolutamente impensabili e fuori da ogni logica, che risultano ancor più surreali se paragonati al tipo di qualifica in questione.
Prima di proseguire è però opportuno precisare una cosa: si tratta del punto di vista e delle riflessioni di uno sconfitto. Ebbene sì, attratto irrimediabilmente dalla vocazione all’insegnamento e non dal miraggio del posto fisso, delle 18 ore la settimana e delle possibilità di imboscarsi incontrollati dietro a un ‘6 politico’, il sottoscritto sì è lasciato coinvolgere nella tremenda macchina burocratica che ha organizzato l’evento (perché visto il numero di partecipanti, di questo si può parlare) e fino all’ultimo ha sperato di poter entrare nel mondo della scuola, incredibile ma vero, per stare insieme ai ragazzi e dare libero estro al proprio desiderio di poter in qualche modo insegnare. Certamente chi ha superato la barriera troverà molto da ridire su questo, ma sulla fiducia, assicuro la totale coerenza: quanto descritto di seguito conferma esattamente la stessa opinione avuta prima di essere in qualche modo ‘bocciato’ e pertanto non è assolutamente dovuta a rancori. Anzi, attualmente lo stato d’animo è quello di chi si è comunque tolto un peso dalla coscienza, avendoci in qualche modo ‘provato’, e che è semmai preoccupato da cosa deve aspettarsi in età scolare l’adorata figlia.
Tolto di mezzo questo cappello iniziale, la nostra storia comincia una sera (febbraio 1999) davanti al telegiornale che annuncia il concorso. Passati i tempi della laboriosa messa in moto della macchina organizzativa, dopo il bando, si procede alle pratiche per l’iscrizione. Il modulo, come ogni buon documento pubblico è un autentico volume scritto in ‘italiese’ e di dimensioni spropositate, tipo dichiarazione dei redditi. Con qualche difficoltà si può procedere alla compilazione e invio tramite raccomandata, comprensivo della ricevuta di versamento postale (Lire 74.000!). L’infallibile orso burocratico era però in agguato. Un sabato di luglio dello stesso anno, con la macchina carica pronta a partire per le vacanza, arriva una lettera raccomandata nella quale si “invita” (più precisamente si intima), a versare la tassa di iscrizione in quanto mancante, entro 15 giorni. Trattandosi di scegliere tra un giorno in meno di vacanza e altre 74.000 lire regalate allo Stato, viene naturale cedere al ricatto e prendere il tutto solo come uno sfortunato contrattempo. Magari!
Messo da parte il tutto, l’inverno porta la notizia che finalmente si parte: a febbraio 2000 prova scritta (si scoprirà poi essere solo la prima): convocazione perentoria alle 8.00 del mattino in una scuola di Milano (per la gioia degli studenti costretti in vacanza). È a questo punto che il quadro comincia a farsi grottesco: all’arrivo alle 7.55 davanti all’edificio la scena è di quelle che non si possono scordare e gli studenti non avrebbero dovuto perdersi, per capire da che pulpito. Oltre a una ressa da stadio per guadagnare le prime posizioni (un mistero il perché), la massa in nervosa attesa si presentava estremamente variopinta. Chi solo con penna e matita, chi invece con cartoleria al seguito. Chi tempestava tutti con domande inutili e impressioni mai richieste e chi se ne sta in un angolo a guardare divertito la scena. Chi ha già fatto il gruppo e si trasmette dritte sicure sui temi della prova (stile 18enne alla maturità) e chi nasconde gelosamente i propri appunti per paura che qualcuno li veda (stile studente dispettoso). Chi con bebè al rimorchio da allattare con mamma a supporto e chi con provviste per un viaggio intorno al mondo. Chi fuma nervosamente a raffica e chi scalpita nel terrore di non trovare l’aula. E siamo solo all’inizio.
Alle 8.30 (!) i portoni si aprono e si scatena la caccia all’aula, dove con comodo, alle 9.00 (!) si presentano i commissari. Con passo altero fanno il loro ingresso in aula, svolgono sapientemente le formalità e comunicano che la lettura avverrà alle 9.30(!). Subito però un cambio di rotta: “stante l’alto nummero di assenti, si proccede a un accorpammento delle classi”, che tradotto in lingua corrente più o meno significa: visto che tanti non si sono presentati, alcune classi si mettono insieme. Prima della prova, come tutti gli studenti a un esame, bisogna consegnare i libri non autorizzati a qui gli aspiranti professori cominciano a dare il bell’esempio. Parte infatti la lotta a giustificare la legittimità a tenere una vera e propria biblioteca sul banco, farneticando a proposito di “bibbia dell’informatica” e amenità simili. Lasciando da parte lo scontato aspetto didattico della prova, è interessante notare come in poche ore si scatenino istinti irrazionali; da chi brama per andare alla toilette prima delle due ore richieste, a chi trasforma il banco in un autentico accampamento, con tanto di termos, vivande solitamente consumate in una settimana e, incredibile ma vero, la consultazione occulta di appunti segretissimi e la caccia al suggerimenti dal vicino. È quasi un peccato lasciare questa compagnia dopo poco più di tre ore (sulla distanza certa gente offre il meglio di sé) ma, terminato lo scritto, cresce la voglia di considerare chiusa questa prima pratica.
(continua)