Gita a Parigi


In determinate situazioni anche un viaggio di lavoro può essere piacevole e, se la destinazione del viaggio è Parigi, allora le probabilità aumentano in misura considerevole. I giornalisti sono una delle categorie più avvantaggiate da questo punto di vista, in quanto hanno spesso l’occasione di essere invitati per seguire eventi e avere un trattamento impeccabile. In altra situazioni però, accade una serie di coincidenze che rende la trasferta un piccolo incubo, dove imprevisti e contrattempi sono tali da far credere che la cosa non possa essere del tutto casuale, ma frutto di maligni piani elaborati appositamente per rivalersi su una categoria a volte avversa o giudicata troppo pretenziosa. Quella che segue non è una protesta contro un viaggio, seppur di lavoro, dove i confort andavano certamente ben oltre lo stretto indispensabile, ma la cronaca semiseria di due giornate vissute al seguito di due incaricati ossessionati dalla rincorsa disperata del punto successivo del programma, nella speranza di giungere indenni alla fine nel più breve tempo possibile. Questa corsa sfrenata e ansiosa inizia al ritrovo presso l’aeroporto di partenza un’ora e mezzo prima del volo. Nonostante l’avviso che, abitando nei pressi dell’aeroporto i rischi del traffico erano praticamente nulli, sarei arrivato circa venti minuti dopo, appena consegnati gli articoli per la settimana, alle 12,20 trovo la carovana già uscita dal check-in e pronta a scattare in direzione dell’uscita. Svolte in un attimo le operazioni di registrazione, mi unisco alla coda del gruppo, tirato a velocità elevata dai responsabili dell’azienda organizzatrice dell’evento e con le rotelle dei bagagli a mano surriscaldate dalla velocità e dalle brusche curve, in direzione degli imbarchi.AG00072_.gif (4513 byte)

Gisella (così chiameremo la responsabile femminile della società che ha organizzato il viaggio, mentre l’altra persona sarà Anselmo), infila con precisione la corsia che porta al metal detector e si lancia dentro con esperienza, a malapena frenata dagli addetti al controllo. Recuperata qualche posizione nel gruppo, mi accingo a fare lo stesso ma, proprio in quel momento, squilla il telefono (appena appoggiato sul nastro trasportatore e prontamente recuperato) con comunicazioni urgenti da parte della redazione;  la mia reputazione nei confronti di Gisella in pochi minuti aveva così accusato due colpi micidiali. Arrivati alla porta con 55 minuti di anticipo si attende pazientemente l’imbarco e si azzarda qualche programma diversivo per il probabile (illusi) tempo libero. Tralasciando le note sul viaggio, fuori dalla portata di Gisella e Anselmo (quest’ultimo nel ruolo di colui che conferma il detto secondo cui  certe circostanze non possono mai arrivare da sole), si giunge a destinazione dove viene enunciata la prima frase sibillina, al momento trascurata, ma indice di quello che sarebbe stato il tormentone delle due giornate: “Domani dobbiamo partire dal centro congressi per tempo se non vogliamo perdere l’aereo. Ci vorranno almeno tre ore (3!)”. Si arriva così tranquilli all’uscita dove ci si trova in gruppo ad attendere. “Ok, ma che cosa si sta aspettando?”, si legge nello sguardo un po’ di tutti. Dai due protagonisti attaccati al cellulare (secondo tormentone al punto da lasciar credere  si trattasse di feticisti del cellulare che pur di parlarci conversino tra di loro), dopo un po’ trapela che deve unirsi a noi una giornalista di Roma, la quale vagava in aeroporto alla nostra ricerca già da un pezzo. Formato il gruppo, il programma prevede il trasferimento in hotel tramite taxi; l’operazione di per sé non dovrebbe sembrare complicata: i taxi fanno parte integrante di un aeroporto e la maggior parte dei clienti viene portata negli alberghi della città, ma in due giorni così non può succedere niente di banale. Ripartiti i viaggiatori in gruppi di tre e caricati i bagagli, nessun autista conosce l’hotel, forse perché Gisella conosceva il nome ma non la via. Recuperata l’informazione a fatica, naturalmente via cellulare, il viaggio può proseguire. Tragitto regolare fino all’hotel, nella parte esterna di Parigi, a parte la compagnia della pioggia e l’arrivo del taxi a 200 metri dall’ingresso. Attesa una vettura ritardataria si può procedere alla registrazione e alla conquista della camera. Il tempo di una breve escursione nei paraggi tra i meno significativi della capitale francese e arriva il primo punto ufficiale del programma: il cocktail di benvenuto. Due ore di far nulla dove, senza autocontrollo, si può accumulare più calorie di un intero periodo di feste natalizie e nessuno sa bene chi o cosa si sta aspettando. Al termine delle due ore, dieci parole dieci di benvenuto da parte di un rappresentante della società, e passaggio in sala pranzo dive ci attende la cena. Non che si pretendesse una cena alternativa in un locale tipico, ma forse tutti ci speravamo. Comunque, si da inizio alla cena: tavolo rotondo con al centro candelabro enorme che fornisce praticamente la maggior parte della luce del locale e ostacola la vista dei dirimpettai, e serie di frasi di circostanza. Al momento della prima portata i giornalisti, che bene o male tra loro si conoscono, in qualche modo conversano, mentre Gisella e Anselmo, responsabili del marketing e delle relazioni esterne, ascoltano in timoroso silenzio (pensando forse a come non perdere l’aereo il giorno dopo). Ammetto di non essere di gusti facili, ma una cosa che proprio non mi piace è il pesce; cosa mi trovo davanti? Un bel piatto di pesce, freddo e per giunta crudo che, per non fare la figura del difficile, mangio in parte. Me ne pentirò amaramente, restando due giorni con il suddetto cibo a spasso per lo stomaco, senza intenzione di volersi togliere di mezzo. Il resto della cena riesce comunque a riscattarsi, almeno per la qualità e si può osare una fuga per girare un paio d’ore nelle strade parigine in autonomia. Non potendo trattenerci, Gisella si limita a raccomandare la puntualità (ore 8.00) per il giorno dopo.BD05680_.WMF (24348 byte)

Trascorsa la parte di notte rimasta a tenere a bada il pesce che, essendo probabilmente qualcosa più che crudo, reclamava quantità industriali di acqua, la squadra è puntuale al ritrovo del mattino. Anselmo ha rotto gli occhiali e, da miope, ha i suoi problemi, ma per fortuna con la mia montatura di riserva riesco a venirgli incontro. Caricati tutti i giornalisti, italiani e stranieri sul pullman si attende la partenza per il centro congressi, luogo dell’evento. Cinquanta minuti dopo si è ancora in attesa della partenza, quando giungono in tutta tranquillità tre ritardatari, che evidentemente la multinazionale non poteva permettersi di far arrivare in taxi in modo da evitare ad altri ottanta lo spiacevole ritardo.

Registrati tutti gli intervenuti presso la reception (quasi un’ora), il gruppo viene guidato stile mandria nella sala per la conferenza dove c’è solo un finto servizio traduzioni (cuffie e cabine pronte, ma sfortunatamente mancano le interpreti; piccola dimenticanza). Conferenza stampa a ritmi da velocisti, due domande due da parte dei giornalisti e subito si organizza il ‘tour guidato’ per mostrare la parte dell’evento dedicata ai partner e ai clienti. Avendo scelto, alla conferma della partecipazione i temi ritenuti più interessanti, ci si aspetterebbe si essere divisi  a seconda degli argomenti richiesti, ma l’organizzazione ha pensato meglio di formare gruppi per nazione di provenienza cui mostrare in quattro e quattr’otto funzionalità standard, stile vendita promozionale. Esaurito il tour arriva il turno non si sa di che cosa; a un certo punto i giornalisti vengono invitati in una enorme sala ad anfiteatro dove sta per avere inizio un misterioso spettacolo. Su un palco stile convention americana compare lo stesso dirigente che ha tenuto la conferenza stampa per ripetere le stesse cose, e cedere di seguito la parola a un partner, che in Italia non è neanche presente.

Arriva l’ora del pranzo e già si formalizzano problemi con le interveste (anche quelle richieste in anticipo per argomento e assegnate a caso), organizzate, spostate, rifatte, ri-spostate e in qualche modo aggiustate. Scovato il ristorante interno al centro, dopo un tour di tutti gli angoli dell’edificio, Gisella continua a compilare, stracciare, scrivere biglietti con orari e interlocutori delle interviste tra un boccone e un pensiero all’aereo che già ci aspetta. Dopo il pranzo mamma Gisella scorta il plotone italiano in sala stampa raccomandando di non allontanarsi perché da lì “sarebbero venuti a prenderci per le interviste”, ci spiega con tono un po’ inquietante. La sala stampa è una stanza con qualche tavolo, poche sedie, una presa del telefono senza telefono e un computer uno, senza connessione a Internet. Sono l’ultimo a fare l’intervista (altri, per motivi di tempo, sono stati esclusi del tutto) e, all’orario stabilito, sovvengo alle istruzioni e mi avvio solitario verso la stanza indicata. Appuntamento alle ore 15; alle 15.25 esce il giornalista precedente. A quell’ora Gisella, che si era fatta consegnare la mia contromarca del guardaroba “per non perdere tempo e rischiare di perdere l’aereo” era già valigia in mano davanti all’uscita pronta a scattare, ma io mi ero appena seduto. Fatte le presentazioni, tempo due domande di numero, ecco che arriva trafelato Anselmo per prelevarmi; lascio a malincuore la stanza dopo saluti e scuse frettolose, metto insieme le mie cose, passo dalla toilette (“sarebbe meglio di no” era stata la risposta alla mia richiesta) e mi dirigo al ritrovo dove mi aspettano i miei effetti e dove uno schieramento di ruote di valige è pronto a sgommare.

Si va quindi a caccia di taxi; l’aereo è solo tra due ore e tre quarti quindi bisogna per forza correre come disperati. Gisella si rende conto che davanti all’ingresso principale i taxi non fermano, ma si trovano di lato. Scatto improvviso; il gruppo colto di sorpresa arranca ma recupera grazie a cambi regolari. La nostra eroina passa impavida per strade trafficate e protette da parapetti che rendono problematico il ritorno sul marciapiede, sbanda paurosamente con il bagaglio che percorre ampi tratti su una ruota sola, ma alla fine riesce a incastrarci tutti in vettura.

Informato l’autista che non è necessario correre perché il volo è tra due ore (in realtà sono due e mezzo), il respiro in preda all’ansia da ritardo (dell’arrivo in aeroporto), si fa ansioso e, al primo accenno di incolonnamento, praticamente sull’orlo di una crisi di nervi. Inutili i tentativi di tranquillizzare il soggetto che anzi, rischia una crisi ben più esplosiva e pertanto va assecondato, ma che comunque riesce a cavarsela. Al sopraggiungere all’aeroporto i problemi e le ansie potrebbero finire (2 ore al volo), ma Anselmo e Gisella dimostrano di poter dare il meglio di sé.

Da un atrio del terminal, la ricerca via telefonino riesce (vorrei tanto sapere come) a conoscere in anticipo il banco dove sarà effettuato il check in. Guidato il gruppo al posto indicato, dopo un’attesa di venti minuti arriva l’addetto che può accertare come nessuno sia potuto arrivare prima di noi. Immediato trasferimento all’uscita dove resta solo da riempire un’ora e mezza (diventeranno due con l’immancabile ritardo provocato dal volo in arrivo da Malpensa). La tensione seppur ancora alta, cala sotto il limite di attenzione, ma non è finita; potrebbe succedere ancora qualche cosa. Per fortuna, ritardo a parte tutto finisce al meglio. A Malpensa Gisella ritorna ad avere un colorito e un’espressione umana, Anselmo mi restituisce gli occhiali e tornano contenti al loro mestiere, convinti forse di essere riusciti a tenere a bada un gruppo di giornalisti scatenati, uno in particolare. E i giornalisti? Due giorni (dicono a Parigi, ma non ne sarei sicuro) per una conferenza stampa che nulla in più aveva dato rispetto ai classici e formali comunicati stampa. Sarà per la prossima volta; Gisella e Anselmo, siete avvisati!


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